Da “Per Aurora volume quinto”: “Così fu” – Undicesima puntata

comeicinesi


Racconto
del 24/01/2012   58 visite   0 voti

 

Bruno Mancini 

Così fu

PARTE  2

CAPITOLO 1

 

Sangue.

Un effluvio di sangue.

Un effluvio di sangue macerato.

Un effluvio di sangue macerato da almeno venti anni.

Non che io ne avessi già avuto la percezione in precedenza, e se anche per caso, chi sa quando, mi fossi altra volta imbattuto in tale sgradevole esalazione, certo non ne avevo associato al lezzo l’origine.

Eppure, compiuti pochi passi oltre il focolare, ho avuta una inspiegabile cognizione di dover seguire quel tenace effluvio di sangue macerato da almeno venti anni.

Attratto come da una calamita, stordito come da un etere, ciondolando come un ubriaco, il capo chino come un cane, le braccia pendule come una scimmia, gli occhi fissi come un ebete, ho raggiunto la scala di comunicazione tra il piano terra e gli ambienti sottostanti: cantina, dispensa, lavanderia, chiesa.

Esatto, un ambiente consacrato, ove, almeno due volte l’anno fin quando la Signora Aurora fu in vita, un sacerdote, con barba bianca e tanta voglia delle golosità alcoliche disponibili in casa, diceva messa alla presenza delle famiglie di tutti i domestici al completo (me compreso).

Per la verità, se non altro nelle ultime occasioni in cui fui presente, più che seguire il rito proposto dall’officiante, la mia attenzione divagava tra le futilità proposte dalle situazioni contingenti e le movenze di Gilda, che ogni anno di più sentivo appartenermi interamente.

Ignazio, molto meglio di me, sapeva fingere di aver fede e di pregare mia madre avrebbe voluto accelerare la liturgia, ad esempio eliminando la bevuta del sangue che invece rappresentava il pezzo forte di Petrus, per riprendere i lavori domestici.

La Signora svestiva i panni di Donna Guascone, solo in quelle occasioni, e poggiava le dita alle tempie quasi a dotarsi di un paraocchi che ampliasse la sua concentrazione verso l’altare, nell’attesa di essere liberata, mediante il gesto della croce, dai peccati di cui si era pentita in confessione.

Tutti gli altri, comparse, vestiti sempre con gli stessi abiti della festa, ripetevano sempre le stesse scene, alzandosi, inginocchiandosi, e cantando e pregando sempre con gli stessi toni di voce, ogni volta che l’uomo sull’altare, Petrus, ne dava l’imput.

L’altare, un marmo bianco lungo non meno di tre metri e largo circa due metri, poggiava solo sui tre lati frontali sagomati utilizzando mattoni ricavati squadrando pietre verdi presenti in una località  chiamata Cavallaro.

Al suo centro era stata scalpellata un’ampia buca rotonda come un’ostia, nella quale la Signora Aurora, ad ogni cerimonia, voleva fosse collocato un contenitore di tela anch’essa bianca ripieno di sabbia raccolta durante la notte precedente lungo la marina antistante il vecchio cimitero di Sant’Anna a Cartaromana.

Appena Petrus raggiungeva l’altare, in essa, cioè nella sabbia depositata nella buca a forma di ostia, lei, e solo lei, la Signora Aurora, conficcava un pesante crocifisso di ferro lavorato a mano che mi colpiva per aver le quattro sporgenze tutte a forma di punta.

Potevo comprendere che ne fosse provvisto il lato lungo, dovendo penetrare nella sabbia per reggerne il peso, ma non riuscivo a dare una spiegazione agli altri aculei, anche perché la sagoma umana non era rappresentata né inchiodata né adagiata alla croce, bensì proprio le sue fattezze costituivano la geometria del simbolo, e quindi i suoi piedi – accavallati -, le sue braccia – distese-, la sua testa – eretta -, terminavano tutti in una struttura volutamente appuntita, forse per apparire come emblematici elementi  indicanti pungoli morali e spirituali.

 

Discesa, non so come, la scala, fiancheggiata la dispensa e la cantina, mi sono avvicinato all’altare, e forse inciampando, forse per una perdita di equilibrio, forse per una ulteriore mancanza di forze, mi sono trovato inginocchiato con le mani aggrappate al bordo di marmo consacrato.

Mancava il crocefisso.

Ho chiuso gli occhi, ho stretto i pugni per non piangere, ho espresso un desiderio, un’esigenza, una ragione di vita: “CAPIRE”.

“Perché Gilda, la vita mia, la figlia di Aurora, il mio amore, la verità, la parte giusta della mia umanità, perché Gilda, la mia croce, la mia delizia, perché Gilda, la mia anima, la mia poesia…

tutto passato, tutto finito, tutto passato, tutto finito con un addio incomprensibile, ingiusto, immeritato, immotivato, venti anni fa…”.

 

Neppure avevo terminata la frase ed ho udito, o forse solo sentito nella mia mente, chiaramente, la voce inconfondibile di Aurora rimbalzare da una parete all’altra, dal soffitto al piano di calpestio, passando e ripassando davanti e dietro la mia testa, roteando, ondeggiando, oscillando, esatto oscillando, l’ho sentita ripetere tre, cento, mille volte: “Ancora pochi passi e la metempsicosi spirituale che intendevi costruire tra il tuo passato ed il tuo futuro sarà completata”.

E’ stato come il vento forte che anticipi l’arrivo del temporale mentre si è intenti, fermi sul lembo estremo della scogliera, ad ammirare il sole scomparire oltre un orizzonte sempre ambito e mai raggiunto.

Che fare?

Restare ad accogliere la nuova dimostrazione di forza della natura, con il corpo passivo e la mente eccitata?

Cercare riparo tornando, correndo, fuggendo?

Andare incontro alla tempesta, a braccia aperte, sforzandosi d’individuarne la provenienza scrutando i primi barlumi di lampi oltre le nubi squarciate dagli ultimi raggi rossi?

Mia madre ci portava laggiù, sotto l’altare, in fondo alla botola segreta, nel tugurio utilizzato un tempo quale ricovero dai bombardamenti ed  occasionale rifugio per combattenti della resistenza anti nazista.

Mia madre portava laggiù me e Ignazio durante la guerra, lasciandoci soli per non sottrarci spazio.

Una tomba.

Limitata in alto dal sacco di sabbia contenete la croce, di poco più alta di una tomba e di essa poco più spaziosa, la grotta tugurio riusciva ad accogliere al massimo due adulti in posizione distesa.

Finita la guerra, passato il pericolo nazista, solo Ignazio ed io conservavamo il ricordo di quei giorni e di quel luogo, rivisitandolo di tanto in tanto per fumare le prime sigarette proibite.

“Appena posso, partirò per diventare un nuovo partigiano, un vero combattente – mi disse Ignazio nell’ultima occasione della nostra discesa -, e se dovrò fuggire, verrò a nascondermi qui.”

Raccolse una vecchia coperta… una pentola di stagno… dei tronchetti di legno…  una corda… una bottiglietta d’olio, ed altri oggetti che immaginava potessero essergli utili in una tale eventualità e stipò tutto, ordinatamente, nell’angolo in fondo alla grotta.

Intanto che in me si sono accavallati simili ricordi, la voce di Aurora non ha smesso di ripetere ossessivamente, senza tregua “Ancora pochi passi e la  metempsicosi spirituale che intendevi costruire tra il tuo passato ed il tuo futuro sarà completata”, ed io ho caricato nel mio cervello l’ultimo brandello di coraggio, muovendomi carponi verso il retro dell’altare.

Gli ultimi passi sono i più faticosi, l’ultimo boccone è il più indigesto, l’ultima speranza è la più dolorosa.

 

Uno scheletro in posizione prona.

Trafitto alle spalle da un crocifisso.

Il crocifisso della Signora Aurora, di ferro lavorato a mano, penetrato attraverso uno squarcio nel telo bianco che reggeva la sabbia nella buca a forma d’ostia al centro del marmo.

Ho fatto appena in tempo a leggere il nome sulla piastrina di riconoscimento legata alla catena che avevamo avuto in regalo il giorno della prima comunione, Ignazio ed io, e non so ancora se sono morto durante tutto il tempo seguente in cui ho sognato.


Bruno Mancini.

… segue. Titolo: Per Aurora volume quinto www.lulu.com

ID: 6595064

ISBN: 978-1-4092-8184-9 Prezzo:  €11.04

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