Il condannato Berlusconi

Il condannato Berlusconi

Berlusconi è

condannato.

Il Senato ne prenda atto,

non occorre alcuna discussione.

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In questi giorni, il condannato Berlusconi e i suoi sodali, con i loro atteggiamenti e le loro  ravissime affermazioni, stanno offendendo lo Stato di diritto e mettendo a rischio la tenuta della nostra democrazia. Infatti, Berlusconi, invece di accettare il verdetto definitivo, emesso dalla Cassazione, ha dato il via ad una pericolosa escalation di accuse nei confronti della magistratura, cercando di propinare, a reti unificate, la sua versione dei fatti, chiaramente costruita ad arte. Solo in una dittatura può verificarsi un simile abuso, una così grave invasione degli spazi d’informazione del servizio pubblico. Ed è grave che, davanti tutto questo, i rappresentanti delle istituzioni restino, come al solito, silenti e complici. Ma ci rendiamo conto che a parlare è un individuo condannato in via definitiva per frode fiscale? Lo dico dal 1994 e non mi stanco di ribadirlo: siamo davanti ad una persona che è entrata in politica, solo ed esclusivamente, per scappare dalle Aule dei Tribunali, per utilizzare le istituzioni a proprio uso e consumo e farsi leggi ad personam. Ora che giustizia è fatta, Berlusconi deve rassegnarsi. Tolga il disturbo, una volta per tutte e non aggiunga danni a danni, visto che ha già fatto perdere credibilità al nostro Paese davanti al mondo intero. E non si cerchino scappatoie che non esistono. Nei confronti della sentenza definitiva, emessa dalla Cassazione, deve esserci, da parte del Senato, una semplice presa d’atto. Silvio Berlusconi, infatti, è già decaduto dal ruolo di parlamentare nel momento della notifica. Non occorre nessuna discussione e men che meno nessun voto. Questo perché il voto potrebbe contrastare con la decisione dell’autorità giudiziaria e, in quel caso, sarebbe una negazione dello Stato di diritto. Senza alcuna esagerazione, si tratterebbe di un vero e proprio colpo di Stato davanti al quale ci sarà una vera e propria sommossa sociale. Noi dell’Italia dei Valori non permetteremo che si violenti lo Stato di diritto.

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Il voto sulla decadenza dal mandato di parlamentare di Berlusconi da parte della Camera d’appartenenza non dovrebbe essere affatto pronunciato, giacché il Senato non deve votare se rispettare o non rispettare il dispositivo della sentenza, ma solo prenderne atto. E’, quindi, sufficiente e necessario che il Presidente del Senato, Piero Grasso, si limiti ad informare l’Assemblea dell’esito della sentenza, che stabilisce l’interdizione di Silvio Berlusconi dai pubblici uffici. Infatti, Berlusconi è già decaduto dal ruolo di parlamentare nel momento della notifica. Non occorre nessuna discussione, né voto. Questo perché il voto potrebbe contrastare con la decisione dell’autorità giudiziaria e, in quel caso, sarebbe una negazione dello Stato di diritto. Senza alcuna esagerazione, si tratterebbe di un vero e proprio colpo di Stato. Insomma, davanti alla sentenza emessa dalla Cassazione, deve esserci una presa d’atto e basta. Perché la volontà espressa dai magistrati e’ fin troppo chiara. – See more at: http://www.antoniodipietro.it/#sthash.XRHPqSyL.dpuf

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Il condannato Berlusconi

Alla fine tutti i nodi vengono al pettine. Come volevasi dimostrare, anche Berlusconi, come Al Capone, è caduto sulla classica buccia di banana. E’ stato accusato di tanti reati e, finora, è riuscito a farla franca confezionando leggi ad personam e inventandosi persecuzioni inesistenti. Alla fine è stato condannato, in via definitiva, per frode fiscale. Voi affidereste le chiavi di casa vostra ad un individuo che compie un reato di questo genere? Sarebbe come affidare a Dracula la gestione di un ospedale. Ecco perché prima ce ne liberiamo e meglio è. È dal 1994 che sto dicendo agli italiani che Berlusconi si è messo a fare politica per motivi giudiziari. C’è chi, scoperto con le mani nel sacco, si è dato alla fuga, chi, invece, si è consegnato alla giustizia e, poi, c’è Berlusconi che ha inventato la terza via: si è messo a fare politica perché tra San Vittore e Montecitorio ha preferito quest’ultimo. Ma tutti i nodi vengono al pettine e oggi sappiamo che quest’individuo è un condannato in via definitiva per frode fiscale. Ora, mi chiedo: che senso ha continuare a credere alle stupidaggini che racconta con l’intento di far passare il messaggio che è stato perseguitato dalla magistratura? E’ una persona alla quale non si possono affidare le chiavi di casa e men che meno gli si può affidare la gestione della res publica. Per questa ragione chiediamo che, al più presto, si torni alle elezioni e che i cittadini possano scegliere a chi affidare le chiavi di casa. – See more at: http://www.antoniodipietro.it/#sthash.XRHPqSyL.dpuf

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Ora abbiamo la certezza che Berlusconi è un evasore fiscale e, come tale, non era degno  di governare l’Italia ieri, né oggi è degno di rappresentare le istituzioni. Ci auguriamo che lo capiscano anche quei cittadini che, in buona fede, sono stati raggirati e presi in giro da un sistema d’informazione malato che risponde agli ordini di Silvio Berlusconi e che, per suo conto, ha disinformato l’opinione pubblica. Infatti, con questo sistema ha venduto agli italiani la sua innocenza, facendo credere che erano i magistrati ad accanirsi contro di lui. Invece come ho sempre detto dal primo giorno, Berlusconi è entrato in politica solo per sfuggire alla giustizia. – See more at: http://www.antoniodipietro.it/#sthash.XRHPqSyL.dpuf

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ARTICOLI DI MARCO TRAVAGLIO/2

Marco Travaglio
Per la legge il Caimano non può avere clemenza, quindi l’avrà? (Marco Travaglio).
Da Il Fatto Quotidiano del 03/08/2013.
I TRE MOTIVI DEL NO.

Analfabeti”. Così Napolitano definì il 12 luglio quanti, su Libero, ipotizzarono la grazia a Berlusconi in caso di condanna al processo Mediaset. E parlò di “speculazioni segno di analfabetismo, sguaiatezza istituzionale e assoluta irresponsabilità politica che può solo avvelenare il clima della vita pubblica”. E aveva ragione: non solo perché B. non era stato ancora condannato in via definitiva; ma anche perché i poteri di grazia del presidente della Repubblica sono circoscritti dal diritto. Ed escludono che B. possa essere graziato, per svariati motivi.

1) Il Cavaliere ha altri 5 processi pendenti in varie fasi, di cui due già approdati a condanna di primo grado (Ruby e telefonata Fassino): basterebbe che uno solo giungesse a condanna definitiva per riportarlo nella situazione di condannato-interdetto da cui la grazia lo libererebbe dopo la sentenza Mediaset. Infatti, per Alessandro Sallusti, pluricondannato per diffamazione e tuttora imputato in altri processi, Napolitano non optò per la grazia, ma commutò la pena da detentiva a pecuniaria.

2) La grazia si concede ai condannati che abbiano già espiato parte della pena, anche perché concederla all’indomani di una sentenza suonerebbe come un’inammissibile sconfessione della decisione dei giudici e una violazione della loro indipendenza. Principio che Napolitano ha già ignorato graziando il colonnello Cia, Joseph Romano, appena condannato in Cassazione per il sequestro di Abu Omar e addirittura latitante.

3) I poteri di grazia sono stati ulteriormente limitati dalla Corte costituzionale nella sentenza del 3 maggio 2006 sul conflitto Ciampi-Castelli a proposito della grazia a Ovidio Bompressi, condannato anni prima per l’omicidio Calabresi. La grazia è prerogativa del presidente, e il ministro della Giustizia non vi si può opporre, perché è un provvedimento “umanitario” ed “eccezionale” (essendo una deroga al principio di uguaglianza). Non “politico”. Il presidente infatti non è responsabile dei propri atti, che necessitano sempre della controfirma di un membro del governo. Siccome però la grazia è ispirata a una “ratio umanitaria ed equitativa” volta ad ”attenuare l’applicazione della legge penale in tutte quelle ipotesi nelle quali essa confligge con il più alto sentimento della giustizia sostanziale”, essa “esula da ogni valutazione di ‘natura politica’”, ed è naturale attribuirla “al capo dello Stato ‘quale organo rappresentante l’unità nazionale’, nonché ‘garante super partes della Costituzione’”. Insomma “il potere di grazia risponde a finalità essenzialmente umanitarie” per “attuare i valori costituzionali… garantendo soprattutto il ‘senso di umanità’, cui devono ispirarsi tutte le pene”. Insomma, mira a “mitigare o elidere il trattamento sanzionatorio per eccezionali ragioni umanitarie”. Napolitano, graziando il col. Romano (latitante e dunque incompatibile con le esigenze umanitarie), se n’è già infischiato una volta. Se ne infischierà anche per B.? Gli darà una grazia “politica” contro i dettami della Consulta? O sosterrà che la grazia è “umanitaria” per “mitigare” una pena che B. non sconterà mai in carcere grazie a una legge (l’ex Cirielli) fatta da lui?

Marco Travaglio

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Nola, cronaca dall’eccidio

Con il patrocinio di MONDIMANCINI

Lunedì 12 Agosto 2013 ore 21.30
Hotel Grazia Terme via Borbonica 2 Lacco Ameno

presentazione del libro di Alberto Liguoro “Nola, cronaca dall’eccidio”.

Intervengono l’Autore, Maurizio Casagrande, Ila Maltese, Federico Scarano;

modera Roberto Ormanno.

Alberto Liguoro

“Nola, cronaca dall’eccidio”

Spinte dicotomiche tra realtà e fantasia

 Nola, cronaca dall’eccidio.

Nola, cronaca dall’eccidio. Essere scrittori comporta sempre la necessità di assoggettarsi a forti spinte dicotomiche tra realtà e fantasia, sia quando s’intenda comporre un’opera mettendo al centro della trama realtà e verità vissute, e sia quando, viceversa, il costrutto lo si voglia far ruotare intorno ad accadimenti e sentimenti completamente inventati.

Vale per la poesia, ma tale ineluttabile sudditanza diventa maggiormente pressante allorché ci si accinga a proporre un “lavoro” in prosa.

Ove la realtà della storia vissuta indichi precise configurazioni sceniche, lo scrittore sarà spronato, dalla sua stessa natura di artista, a modellarne i contorni e qualificarne le più intime peculiarità attraverso la sua personalistica competenza lessicale e sull’abbrivio delle spinte emotive presenti in lui nel momento della ricostruzione mentale dell’evento.

Né si sottraggono al processo inverso le rappresentazioni letterarie che abbiano origine in puri stilemi fantasiosi, in quanto, una realtà concreta e tangibile, pur sempre presente durante la scrittura, s’intrufola subdolamente e detta silenziosi input validi ad inserire la sua essenza nel contesto della narrazione.

Provare a scrivere anche un breve racconto senza omogeneizzare le due forti spinte, lasciandone quindi fuori la fantasia o la realtà, credo sia un esperimento votato al perenne insuccesso.

 

Cosa accade allorquando ci si proponga di narrare una storia “vera” pur non possedendo sufficienti riscontri storici atti a completarne la costruzione?

Alberto Liguoro nel suo ultimo libro “Nola, cronaca dall’eccidio” ci insegna magistralmente la strada da percorrere.

“Nola, cronaca dall’eccidio”, infatti, ad una lettura non superficiale ed automatica risulta quasi come se fosse stato scritto da due penne e due persone diverse.

 

La storia, forte nella sua tragica evoluzione, genera pagine di un un pathos immenso dove il lessico normalmente forbito ed elegante di Alberto Liguoro, cede il passo a frasi monche, reiterate, quasi disarticolate così come sono le emozioni incontrollate e lasciate libere di vagare sulla carta senza le redini dell’opportunismo e della convenienza e senza i laccioli del conformismo e del banale:

«Qualcuno si dirige alla moderna e funzionale caserma fuori dalla città, dov’è acquartierato il XII reggimento, ma lì liquidano la questione con assoluto disinteresse: “Non è faccenda che ci riguardi, rivolgetevi al III”. Che roba è questa? Un altro esercito? Un esercito è il XII reggimento, un altro è il III? Probabilmente è così.»

«Ecco, questo è certo un Generale dello Stato Maggiore italiano che ora metterà ogni cosa al suo posto. Scenderà dalla macchina come una furia, prenderà per il bavero quell’insignificante Maggiore col moncherino e la svastica sul cappello, e gli dirà a muso duro: “Brutto pezzo di merda senza cervello, come si è permesso di arrecare un’offesa così grave al nostro esercito? Le costerà caro! Gli sbaverà in faccia… Cazzo!…»

 

La fantasia, indispensabile per completare la visione scenica e la rappresentazione caratteriale dei protagonisti scorre, viceversa, in una leziosa, comprensibile ed edulcorata miscela di realismo letterario e di poetico verbalismo

«…Per un brevissimo lasso di tempo, il salottino-soggiorno vagamente rettangolare, pareti bianco-latte, pavimento di mattonelle verdi a fiori, come il resto della casa – tranne la cucina e il bagno, dov’erano bianche, lucide da specchiarsi, come tutto il resto della casa – divenne territorio condiviso dalle due giovani amiche e le due più anziane.»

 

«… “Beh non è poco…” Nina lo guardava fisso. Alberto si specchiava in quegli occhi, del sua stesso colore, si crogiolava, si beava,

“Non posso avere un’automobile troppo piccola Nina, so quel che faccio… E Poi la casa. Devo anche avere qualcosa di soldi, dividiamo qualcosa io e i miei fratelli, Un piccolo prestito e avremo la nostra piccola casa, non molto grande, la nostra piccola casa, una casetta… poi si vedrà”.

“Ma… mi stai chiedendo di sposarti?”

Nel titolo “Nola, cronaca dall’eccidio”è esplicitato l’argomento della narrazione e ad esso aggiungerò solo la precisazione che si trattò dell’infame eccidio perpetrato a Nola l’11 Settembre del 1943 dalle truppe naziste, subito dopo l’armistizio dell’8 Settembre, come rappresaglia anti-italiana ai primi moti di liberazione messi in atto dal popolo italiano.

Eccidio che vide cadere fucilato innocente, insieme ad altri 10 graduati il trentenne tenente dell’esercito italiano Alberto Pesce, padre dello scrittore.

Nel prologo che antepone al racconto, Alberto Liguoro scrive: “L’11 settembre 1943 fu un giorno da dimenticare per molti: un giorno da non poter dimenticare, da svegliarsi di soprassalto la notte. Fu un giorno da tenere nascosto, chissà perché. Oggi sett’antanni dopo perché parlarne? Forse perché le storie della vita hanno sempre un senso“.

 

Leggendo “Nola, cronaca dall’eccidio”, noi non abbiamo trovato solo il senso della vita descritto da Alberto, ma molto molto di più. Vi abbiamo trovato il gusto di leggere un libro intenso, coinvolgente, infine… un libro da mettere in bella mostra non nella libreria ma sulla scrivania.

Bruno Mancini
Bruno Mancini

Bruno Mancini

 

Alberto Liguoro e Antonio Mencarini

“Nola, cronaca dall’eccidio”

Ho scritto poesie e ho fatto tante altre cose nella mia vita.

Ho incontrato tante persone lungo il mio percorso e molte ne ho perdute per strada.

Un crimine di guerra ha colpito la mia famiglia, che è rimasto impunito e misconosciuto, come tanti altri. Quanti “processi di Norimberga” non si sono mai celebrati?

“Siamo uomini o caporali?” Diceva Totò e “’a morte è ‘na livella”. Ecco: non ci sono medaglie, non ci sono gradi nella Morte.

Dimenticare il “Male della Vita” non vuol dire affatto promuovere ed espandere il “Bene della Vita”, ma anzi promuovere e lasciar prosperare altro “Male della Vita”.

E poi ci sono le parole del soldato Ugo: “E’ questa la guerra? Mi domando. No, questo è un assassinio in massa.

Ho scoperto, così, di non aver fatto nulla di diverso da ogni altro.

Tutto questo è nel mio libro “NOLA, cronaca dall’eccidio”, pubblicato da INFINITO Edizioni, caro lettore, che io affido a te, e avrò raggiunto lo scopo che mi ero prefisso se tu, in esso, avrai ritrovato un po’ di te stesso.

Alberto Liguoro

Nola, cronaca dall'eccidio

Nola, cronaca dall’eccidio
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MONDIMANCINI Nola, cronaca dall’eccidio

Prefazione

di Roberto Ormanni

“Nola, cronaca dall’eccidio”

Le frequenze dell’Eiar diffondono in un’Italia distrutta fisicamentee moralmente l’annuncio dell’armistizio concordato con le forze anglo-americane. È l’8 settembre 1943. Il messaggio radiofonico del maresciallo Badoglio è registrato perché lui, il maresciallo, sta già raccogliendo armi e bagagli. Soprattutto bagagli, perché le armi italiane non è che fossero di gran pregio. E poco prima anche il re Sciaboletta (così popolarmente soprannominato per la bassa statura) aveva fatto le valigie. Le clausole di quell’armistizio sono uno storico esempio di pasticcio all’italiana.

L’Italia si sfilava dalla guerra ma non si capiva quali fossero le regole da seguire nel rapporto con gli alleati tedeschi. Il nostro esercito si trova senza ordini e senza direttive. Una situazione tragica e grottesca splendidamente sintetizzata nella battuta di Alberto Sordi nel film Tutti a casa: quando la sua compagnia s’imbatte in un gruppo di tedeschi che per tutta risposta gli sparano contro, il sottotenente Sordi-Alberto Innocenzi si mette in contatto con il proprio comando e, allibito, comunica:

Signor Comandante! È successa una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani!”.

La guerra volge al termine ma una nuova tragedia ha inizio: i tedeschi considerano gli italiani traditori da eliminare e, allo stesso tempo, hanno bisogno dell’accondiscendenza dell’esercito italiano per proteggersi la ritirata. Si avviano così trattative private tra ufficiali. A Napoli il comando italiano raggiunge con l’ex (forse) alleato un accordo: voi andatevene, noi non vi ostacoliamo e chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato. I tedeschi però pretendono che i soldati italiani restino fermi nelle loro caserme e a richiesta consegnino le armi. La risposta, di fatto, è alla napoletana: sì, sì, vabbè, facite comme vulite vuje, basta ca ve ne jate. E in realtà la truppa viene tenuta all’oscuro di questo… gentlemen agreement. Nella convinzione che la miglior soluzione fosse: ognuno per sé e Dio per tutti.

Ma per i tedeschi, ieri come oggi, non ci sono mezze misure. E, d’altro canto, i soldati italiani erano molto più rispettosi della disciplina e del codice militare di quanto i comandanti pensassero: alle richieste dei tedeschi di consegnare le armi, rispondono picche. E qui sovviene un’altra celebre battuta del cinema, presa da I due colonnelli: Totò non vuole cedere all’ufficiale tedesco che, sprezzante, gli ribadisce: “Io ho carta bianca!”, inducendo Totò a replicare: “… E ci si pulisca il culo!”. La realtà è assai più drammatica: il 10 settembre 1943 una colonna tedesca, a Nola, ingiunge agli ufficiali italiani di consegnare le armi. Loro rifiutano, ne nasce un litigio nel corso del quale un ufficiale tedesco, rimasto ignoto, viene ucciso. Basta a provocare la prima rappresaglia dell’isterico esercito di Hitler contro i propri alleati dopo il pasticciato armistizio. Il giorno seguente i tedeschi sparano a un ufficiale italiano che, sventolando bandiera bianca, è stato inviato a trattare un accordo e procedono a sceglierne altri dieci da fucilare seduta stante per vendicare la morte del loro soldato.

I pensieri e le parole, i sorrisi e le paure, le passioni e le amarezze, le speranze e le illusioni: le storie dei primi undici soldati italiani vittime non della guerra ma dell’armistizio per aver difeso la propria dignità e, insieme, quella di un’Italia che forse non lo meritava davvero, ci conducono per mano in questo libro di Alberto Liguoro che si rivela un viaggio in un mondo all’apparenza interiore.

Un mondo che, invece, è sorprendentemente comune a quanti, almeno  una volta, hanno creduto di aver capito, guardando un film, un documentario o leggendo un saggio, cosa sia successo davvero nei giorni ordinari di quei mesi straordinari. 

Alberto Liguoro porta il nome, ma non il cognome, del tenente Alberto Pesce, uno dei martiri fucilati nella piazza di Nola l’11 settembre 1943. Non sarò io, ora e qui, a spiegarvi perché. Alberto ha impiegato settant’anni per riuscire a raccontar(si) questa storia. E già fosse solo per questo, varrebbe la pena di leggerla e raccontarla ancora, in memoria di tutti gli Antonio, Vincenzo, Pasquale, Salvatore, Gennaro, Enrico, Giorgio, Aldo, Giuseppe, Luigi e dei tanti Alberto caduti in silenzio tra le rovine della ragione per consentire a noi di passeggiare distrattamente nella libertà.

Voltaire ha scritto: “Al vivo dobbiamo rispetto ma al morto dobbiamo solo la verità”. È forse ricordando Voltaire, dunque, che Winston Churchill disse: “Più si riesce a guardare indietro, più avanti si riuscirà a vedere”. Ma pensando ad Alberto, non si può che dar ragione a Cyril Connolly: “Meglio scrivere per se stessi e non avere pubblico, che scrivere per il pubblico e non avere se stessi”.

 

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