L’appuntamento – Capitolo quarto

L’appuntamento – Capitolo quarto

 Per Aurora volume primo

L’appuntamento CAPITOLO QUARTO


L’isola era un frutto acerbo nel contesto dei luoghi limitrofi.

Nata dal botto di un novello dio vulcano, mostrava, in ogni aspetto, segni evidenti della sua natura.

Le colline tondeggianti e prive di asperità, le spiagge formate da sabbie a grana doppia che neppure aderivano alla pelle, sulla riva del mare scogli sporgenti dal classico colore scuro del magma solidificato.

Trine di anse e picchi e grotte, e dirupi e bordi di intagli di volute e di plaghe, formavano la parte sottostante al cono capovolto del vulcano che si ergeva con cime frastagliate a forma di una cresta.

Vista dal mare ricordava la linea tracciata tra la testa e la coda di un dromedario.

Non appena si lasciava la fascia costiera modellata dall’erosione marina, il poco terreno sedimentato appariva ingabbiato da muri di pietre scure sovrapposte che non avevano subito deformazioni evidenti con il passare degli anni.

Limoni, mandorli, alberi da frutta, e poi pini, oleandri, mimose, a formare un vasto campionario di vegetazione mediterranea.

Oltre il gradino del vecchio cancello, la villa per anni abbandonata, successivamente era diventata splendido ritrovo per personaggi in attesa di definitiva gloria.

La sala di ricezione, ovattata, dalle luci soffici, configurata per accogliere, come in una stazione ferroviaria durante l’ora di punta folle di viaggiatori in arrivo e partenza di diverse razze sesso ed età, concedeva lo stesso tempo allo stupore per l’imponenza e per l’eleganza.

Nascosta alla vista ed all’udito, celata, la cucina, entrandovi, poteva apparire quasi infernale per ordini ed urlacci disumani, fumi intensi e bruciati, e spezie polverizzate, nebulizzate, per calori umidi ed asfissianti e pericoli di scoppi e di braci, di tagli e di cadute, di urti, di trappole, di inganni.

Una terrazza offriva la vista sulla bella cima del monte più alto solcato dal greto di un torrentello, da boschi a chiazze asimmetriche e da burroni incisi come rughe sul volto di un vecchio pescatore ischitano.

Una terrazza con la vista sulla bella…
con trenta pizzi ad angolo giro;
con foreste di alberi sconosciuti;
con tre soli per i riflessi delle cascate,
con tre voci per i rimbombi degli echi;
con tre bionde, tre rosse, e tre nere;
tre bionde, tre gialle, e tre nere;
tre alte, tre basse, tre nere;
tre magre, tre grosse, tre nere;
tre donne, tre suore, tre nere.”

Erano le parole dello spiritual proveniente con gradevolezza di sottofondo dalla pedana ad angolo accanto al banco bar.

Fui io ad accompagnarlo nella carrozza con il mantice aperto che aveva, mesi prima, fatto restaurare in maniera perfetta, maniacale.

Un particolare impianto stereo ripeteva la musica di Felix Mendelssohn.

Concerto in mi minore.

Una coppia di cavalli dal mantello rabicano con lunghe code e criniere sciolte, le ruote, i mozzi, il morso, finanche le redini riflettevano la poca luce del sole al tramonto e gli improvvisi bagliori scatenati dagli agrumi pendenti sui filari che incorniciavano la strada.

Non ricordo di averlo visto mai prima così bello e sicuro.

Non avrei potuto trovare una piega fuori posto allo smoking bianco senza sfumature, alla camicia sbottonata sul collo, alla barba tondeggiante, alle dita con l’inseparabile anello di rubino, alle mani adagiate sul bavero che inserivano all’occhiello una ginestra (ginestra fiore amato dalla mia donna).

Neppure le sue fantasticherie, le sue ostinazioni, i suoi dubbi, le sue speranze, se fossero venuti in superficie avrebbero tolto bellezza alla sfida che si accingeva ad accettare.

Verificare. In maniera definitiva. Senza alibi. Senza veli.

Verificare.

Sapeva bene che andando all’appuntamento si sarebbe in modo irreversibile preclusa la possibilità di salire sull’ultimo battello in partenza dall’isola verso la certezza della sua vita.

Eppure mentre posava il piede sul primo gradino della villa… non so, mi turba l’ennesima incertezza.

Come se non bastasse, da solo, lo scivolare continuo di nuovo su nuovo che comprime prima, e sopprime poi, gran parte dei granuli essenziali alla composizione della mia storia.

Un giorno vidi una lucertola verde al sole, ne sono certo, ricordo anche di averlo scritto, ma se un altro Adamo o un’altra Eva si fosse trovato sulla riva di quel ruscello (era un ruscello?), e come calando un velo affermasse che era rossa?

La mia lucertola potrebbe tranquillamente immergersi nel ruscello (era un ruscello) e trasformarsi nella più bella delle fanciulle bionde con un nastro nei capelli, per poi sfrecciare sulla Ferrari rossa (sarebbe rossa?) nel centro di Parigi tra i Campi Elisi e la torre Eiffel (se i campi fossero di Elisa, cambierebbe qualcosa?) (e se la torre fosse di Michele?).

Eppure, mentre poggiava il piede sul primo gradino d’accesso all’antica villa, mi turbò l’anima il sentirlo pensare:

«Quel giorno era un pomeriggio del mese di marzo od aprile: gli alberi proiettavano le ombre lunghe delle ultime ore sul prato già umido, poco curato e frammezzato a sassi squadrati in modo empirico da uno dei vari custodi che si erano succeduti nel tempo.
Pasqua era passata da pochi giorni.
Da allora ogni volta le immagini, scorrendo a ritroso, si fermano un attimo sulla cintura in cuoio grezzo del mio blue jeans con la borchia rettangolare di ottone scuro rappresentante il “lazo” in volo verso una preda invisibile. Aveva intorno la scritta a rilievo “I AM”.

Perché?

Poi inquadrano l’orizzonte, minimizzato dal muro di cinta, sagomato tra i tronchi rugosi dei pini e gli arabeschi mediterranei dei ferri battuti che orlano l’imponente cancello, ed esso appare per niente mortificato, bensì sgargiante nei contrasti di toni rosso–azzurro, anzi finanche sfacciato nell’irrispettoso insinuarsi tra il vuoto di un arco e lo slargo di una colonna.
Sempre le luci si bloccano sul volto di lei, ancora acerbo, spigoloso, spaurito, stupito; sui suoi occhi increduli, incredibili, innocenti; sulla bocca, carnosa, carnale, candida.
Quella sera di marzo o forse di aprile, sul prato bagnato, sotto i tronchi dei pini, con l’orizzonte limitato a pochi squarci, la mia cintura lontana dal suo viso e dai suoi occhi, la sua bocca giurava. Giurava il nostro appuntamento.»

Qualcuno ha detto che il paradiso può attendere, loro lo lasciarono in quel pomeriggio del mese di marzo o forse di aprile.
In apparenza dimenticato come un guanto, abbandonato come un giocattolo rotto.

Sul prato bagnato tra strisce di orizzonte insinuato nei ferri battuti di un vecchio cancello.

Per una voglia di nuovo.

Egoisti?

Possessivi?

Neppure quella devozione palese e priva di pudori era stata sufficiente ad impedire la costituzione di una spinta verso nuove frontiera del mondo. Sognando il paese dove tutto è possibile.

Un mesto abbandono.

L’anoressia dei sentimenti.

Ancora una volta giovani genti fuggivano, abbandonando i luoghi dei padri in cerca di fortuna: è della gioventù tagliare i ponti e spingersi in voli non sempre sicuri.

Rappresenta parte essenziale del suo sviluppo.

Egoisti.

Verso il limite estremo consentito all’espandersi dell’ansia di libertà, fino al punto di non ritorno.

Possessivi.

Egoisti e possessivi, ciascuno di loro non solo voleva essere scevro da condizionamenti non sempre espliciti e dichiarati, ma negava, con repulsione epidermica, finanche di accettare proprie rigide strutture esistenziali.

Con semplicità posso dire che volevano essere liberi sopra tutto da se stessi.

Cosa significa?
Non so, vedremo.

Egoisti possessivi, giovani.
Bruno Mancini 1

Bruno Mancini è nato a Napoli nel 1943 e risiede ad Ischia dalla età di tre anni.

A lui piace dire che l’origine della sua ispirazione o forse solo un iniziale impulso ancestrale ed istintivo, il vero basilare momento poetico della sua vita, si è concretizzato nell’incontro, propriamente fisico, tra i suoi sensi acerbi, infantili, e le secolari, immutate, tentazioni autoctone dell’Isola d’Ischia, dove le leggi della natura sembravano fluire ancora difese da valori di primitive protezioni.
Anche se aggiunge, con molta auto ironia e con un pizzico di provocazione:

Le mie primissime esternazioni poetiche le ho espresse in tenerissima età, quando ancora non avevo pronunziato per la prima volta la parola mamma, ed alla fine di ogni abbondante poppata liberavo graziose ispirazioni poetizzando mediante dei rimati vagiti“.

Intervista di  Michela Zanarella

Recensione di Roberta Panizza

Recensione di Liga lapinska

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Bruno Mancini

Brevi commenti amichevoli ricavati dalle varie recensioni ai suoi libri pubblicati:

“Vedo una folla che si muove compatta verso un’unica meta guidata dagli incitamenti di colui che punta il dito ed una penna, che crea volti per i sentimenti.”

“…si fondono nell’intero componimento in una prospettiva ampia che contempla l’umano, l’umano cammino. Ed è una Commedia, una Commedia divina in chiave poetica, in versi che sento anche io estremamente dolorosi, con il preciso intento di affidarli alla penna , che non li disperda ma li urli e li renda in qualche modo eterni”.

“… lodo quel senso di eco lontano che riverbera le parole enfatizzandone i concetti”.

“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”

“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”

“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”

“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”

“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”

“…seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”

“…lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”

“ Bella poesia, con alti picchi in termini d’emozione e intensità.”

“…sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”

“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”

“Ed io invece, Bruno, ho letto a ritroso, prima la seconda parte, bellissima, ed ora la seconda, altrettanto splendida. Senso o non senso è una poesia dal forte impatto emotivo. Giochi con il lessico e le iterazioni, che adoro, ed è questa una delle poesie più belle che abbia letto qui dentro, quel genere di poesia che cerco e difficilmente poi trovo.
Mi domando come mai non ti abbia scoperto prima, Poeta??!!”

“Una poetica lacerata e sfuggente…”

“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”

“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”

“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”

“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”

“Sì, lasci molto lavoro a chi legge, eppure questo mi affascina della tua poesia, la afferri e ti sfugge: in essa ti perdi ed allora ti turba… e cerchi il senso e lo cogli e ti lascia poi subito in dubbio. Ma il dubbio stimola, ti coinvolge … Sperimentalismo? Se lo è, come credo, ben venga; io lo adoro.
Bravissimo. Vero artista.”

“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi…”

Prima dell’alba
regalami un verso
così che io possa
sfrontata babbuccia
ricamo sulla brina
imprimere.

Al sole tenero
Vederla piangere di gioia

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